di Antonio Ambrosio
Ci sono profondità, lontane dal mare, abitate da creature controverse il cui aspetto non è dato da quel semplice comune denominatore della bellezza oggettiva. Lì, se ti addentri verso gli abissi, puoi trovare un portale ultraterreno anticamera di mondi paralleli messi in comunicazione da un’osmosi continua tra la fine e l’inizio.
Una fine che ha il sapore del principio quando, ciò che potrebbe essere la conclusione al calar di una infinita dolcezza, si accende la scena immaginifica per eccellenza e una sbriciolata magicamente diviene il riflesso di un incantevole cielo notturno pieno di stelle.
Sarà forse questa una traversata inversa, un viaggio controcorrente che, ancora una volta, mette in discussione le regole, un tuffo inconsapevole nel blu, che si avvicenda in un passaggio dal sapore inconfondibile alla scoperta di memorie d’infanzia rivisitate con i colori della terra autunnale, piglio di un rivoluzionario che alimenta con fede le proprie speranze, chi lo sa?
È di certo un percorso irrazionale di risalita, un gioco continuo, come su ciò che resta dopo aver consumato l‘imperiale gambero solleticato dal riso, dove in modo involontario le scie degli assaggi generano opere per la vista allegra di un fantasista, lasciando delineare all’anima rotte poetiche contornate da mistiche alchimie.
Il più delle volte ci si immerge sfidando l’incognita per osare. Si scatenano i contrasti generando novità ed ecco che un frappé di topinambur (rapa tedesca o carciofo di Gerusalemme) si pone da collocazione ideale per magnetiche ambientazioni che lasciano ad un polpo muovere i tentacoli tra la meraviglia e la sorpresa di conoscere la combinazione perfetta di quel dettaglio insolito al palato.
Man mano che ci si avvicina all’atmosfera di un regolare incipit enogastronomico, è possibile comprendere perché, invertendo le coordinate, tutto può apparire astrattamente perfetto anche a chi, non avvezzo alla disciplina, dialoga ispirato con i pochi strumenti alla sua portata. L’apparente assenza di dinamismo è continua presenza nei piatti di Salvatore Avallone. Lo spettatore è qui prima di tutto chiamato a divertirsi nel ricercare di individuare quale ruolo possa avere un baccalà fritto posto all’interno di un cosmo marino tra pianeti alla maionese e/o alle verdure di stagione.
L’ardito entrée preannunciava il finale. Poco facile era capire che sarebbe stato il mare a bagnare la terra perché cenare al Cetaria vuol dire abbandonarsi alla illogica compenetrazione di gusti lontani e vicini in un moto inverso, diverso.
Dove la luce è quella fiamma che si accende in Salvatore ogni volta che, calato nel suo acquario, accompagna gli umani in una realtà parallela fatta di mondi controversi e dalle piccole dimensioni sconosciute ai molti, ma sempre più nota ai visionari.