di Maria Pepe

Il capolavoro autobiografico nato per necessità.
I debiti di gioco scrivono, in un giro di roulette, per genio e mano di Fedor Dostoevskij “Il giocatore”, libri e cappuccino della settimana.
Ritmo incalzante, personaggi assai perniciosi, pieni di meschinità, gretti, miseramente umani.
Protagonista assoluto, mano invisibile delle vite narrate, è il gioco, vizio che tra tutti più decompone ed esaspera.
Il giovane precettore, attore centrale, intorno al quale tutti gli altri orbitano, punterà soldi e se stesso e in un’illusoria alternanza fatta di perdite e vincite, fuggirà dalla redenzione anche quando questa le si offrirà come dea bendata.
Una struttura a imbuto, un vortice di perdizione senza possibilità, se non quella dell’ inganno.
La ludopatia come virus contagioso che infetta e uccide chiunque tocchi.
Nessuno è immune, dalla giovane figliastra alla vecchia nonna di cui si attende, con ansia, come mamma salvifica, la morte per poter sanare le conseguenze del vizio.
Ferocia, ironia, beffa.
Cinico, sagace, dissoluto, controverso, l’ingestibile russo non si smentisce e svela le più nascoste rovine umane nella sua eccezionale maniera.
Irride se stesso e l’ universo mondo.
Fedor lo sa bene e tra le sue immortali righe lo svela, non esiste vizio senza difetto. Il difetto ancor più, ancor prima del vizio, è uomo.
“Che sono io, adesso? Uno zero.
Che cosa posso essere domani? Domani posso resuscitare dai morti e ricominciare a vivere!
Posso trovare l’uomo in me stesso, fino a che non è ancora andato perduto!”
Vizi e difetti.
Irresistibilmente, sì.