“Il ballo” come metafora di ascesa sociale nel libro di Nemivrosky

di Maria Pepe

Una donna frivola e vanesia.
Una quattordicenne tra infanzia e adolescenza.
Si muovono in un fibrillante periodo storico.
Sono una madre e una figlia, ebree trapiantate nella Parigi degli anni ’20.
Protagoniste indiscusse del capolavoro di Irene Nemirovsky, “Il ballo” edito da Adelphi, con noi per “Libri e cappuccino”.
Un riscatto sociale importante li ha resi parte dei nuovi ricchi.

Si cercano l’ integrazione e l’ accettazione del mondo che conta.
Quale ingresso migliore se non un gran ballo?
Tutto è pronto e al meglio organizzato.
Antoniette piccola e sognante si vede già volteggiare nella gran sala ma la madre matrigna le nega l’idillio.
Niente ballo e confino nello sgabuzzino.
“Ah, credi di fare il tuo debutto in società l’anno prossimo? Chi ti ha messo questi grilli per il capo? Sappi, mia cara, che io comincio soltanto adesso a vivere, capisci, io, e che non ho intenzione di avere tra i piedi una figlia da marito…”
Tristezza e dolore per l’abuso subito presto, grazie al fato, diverranno sottile e feroce vendetta.
Gli inviti finiranno nella Senna.
Al gran ballo nessuno.
È il diniego.
Perché? Per come?
La vanità materna è sconfitta.
Un libricino sottile, commedia del disprezzo che l’autrice usa come strumento per affrontare il personale rapporto dualistico con la madre.
Inserito in una cornice aspra di antisemitismo e superficialità sociale apparente e classista.
Un umorismo doloroso e diretto.
Dipinto della voce della vendetta.
La lucidità di un figlio che per vivere capisce di dover “uccidere” il proprio genitore.
“Sporchi egoisti! Sono io che voglio vivere, io, io… Sono giovane, io… Mi derubano, si prendono la mia parte di felicità sulla terra…”
Il ballo.
Sincero e brutale.
Spietatamente, sì.

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